Presumibilmente scritto nella
seconda metà degli anni '50, dopo il "collocamento a riposo"
ottenuto nel 1953, questo lungo scritto autobiografico di Angela
Maccioni vede la luce grazie all'amorevole e intelligente
interessamento di Luisa Selis Delogu, cui lo aveva
fortunatamente affidato Raffello Marchi nel lontano 1979.
Il manoscritto autografo è
incompiuto in qualche sua parte e la sua conclusione può lasciare
supporre che l'Autrice avesse intenzione di completarlo e forse anche
di ampliarlo.
Dico forse, perché se è
comprensibile che la Maccioni non avrebbe trascurato di colmare
alcune lacune, in qualche caso vistose, del racconto - dovute sicuramente a un'utilizzazione
parziale e quasi a mò di prima stesura, delle lettere inviate a lei
personalmente e ai genitori dai due fratelli emigrati (osservo che
mentre il ritratto di Giacinto è disegnato quasi a tutto tondo,
quello di Bachis nell'emigrazione appare appena sbozzato) - meno
probabile è che potesse immaginare e
volere una conclusione diversa da quella sorta di affresco o
"sinfonia della Pietà familiare" i cui tempi sono scanditi
dal ritorno, prima, e dal suicidio di Giacinto, poi, dalla morte del
padre e da quella della madre. [...]
La sintesi narrativa ottiene
un effetto così concitatamente drammatico, che
non sembra davvero eccessivo parlare di tragedia.
[...]
Il racconto non dipende che in
termini esteriori, privi cioè di necessità, dalla "verità"
degli accadimenti, i quali in quanto tali restano quelli che sono,
conclusi nella loro realtà temporale e spaziale, intangibili e
inesplicabili nella loro oscura necessità. Credo che la Maccioni ne
fosse consapevole. Non a caso fu lei a dare, senza saperlo, l'unico
titolo possibile a questa storia che chiamava, appunto, "il mio
romanzo". [...] (dalla prefazione di Ignazio Delogu)